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Archiporto – il gioco

C’era una volta, al Castello di Thiene

Immagina di essere una donna vicentina del 1500, nobile ma obbligata dalle circostanze a doverti arrangiare da sola, in difficoltà economica per un’improvvisa malattia del baco da seta, magari testarda, con la testa dura; guardi fuori, verso il Bacchiglione, e vedi dei pazzi che si tirano dei coltelli, per l’ennesima faida tra fazioni. Che fai?

Da premesse come queste – scoperte nel corso del riordino dell’Archivio del Castello di Thiene – nasce il gioco di ruolo che ho ideato, insieme a Machineria, Centrale Fies e altri compagni di viaggio che trovate su www.archiporto.it

Un gioco di carte al servizio del patrimonio archivistico

L’idea iniziale era quella di un prodotto digitale per valorizzare non solo e non tanto l’Archivio in sé, ma il suo ruolo nella formazione della memoria di un territorio, e nella rete dei vari centri che contribuiscono al presidio della cultura locale. Abbiamo parlato con molte persone nelle scuole, nelle librerie e nelle biblioteche di Vicenza.

L’indicazione, dopo qualche centinaio di sondaggi, è stata chiarissima: carte da gioco, storie di personaggi affascinanti, strumenti digitali solo per approfondire.

Archiporto. Gioco di carte sul Castello di Thiene nel 1500 - Luca Melchionna

Tutto ha tenuto conto dei desideri del pubblico reale: le meccaniche di gioco, la direzione artistica, la grafica, il progetto mobile e web e ovviamente la distribuzione: Archiporto è disponibile per il download gratuito dal sito web. Enjoy 🙂

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Machineria. Storie che funzionano

Machineria è l’azienda che ho fondato nel 2020. Born under covid, ma restiamo umili. Ci occupiamo di progetti digitali per il patrimonio culturale. Ma prima una breve digressione:

Un giorno, sarà stato il 1984, alle medie ci hanno fatto leggere un passo dai diari di Schliemann, l’archeologo che ha dissotterrato i resti di Troia. Colpo al cuore: ho scoperto che mi piaceva l’avventura umana della conoscenza.

Passano neanche due settimane e il mio insegnante di matematica, che si chiamava Montagna, invitò tutta la classe a casa sua a scoprire il BASIC su un personal computer. Boom: ho scoperto che mi piaceva pure l’avventura extra-umana delle macchine.

Nascere negli anni Settanta per molti ha voluto dire imparare a tenere insieme i ritmi diversi del pensiero, del computer, dei mass media. Da questo sforzo nascono le competenze che oggi si chiamano project management o conversational design.

Mettendo a fuoco la questione è nato appunto il nome di Machineria, che ho fondato insieme a Daniele Dalledonne e Diego Feltrin di DIMENSION.

Machineria. Storie che funzionano

Machineria racconta il patrimonio culturale con processi integrati che distillano il meglio di due mondi: l’efficienza delle macchine e la cura delle persone. Usiamo tutte le tecnologie per produrre contenuti inclusivi, e la qualità degli esperti per dare un senso alle automazioni.

Siamo una start-up di Trento, ma il nostro staff lavora da oltre vent’anni dentro e con istituzioni italiane e internazionali nei settori della cultura e del turismo. Ci occupiamo di progettare storie che funzionano e di raccontarle in formati inclusivi e adatti a pubblici in continua evoluzione.

Machineria ha sviluppato progetti digitali per il patrimonio culturale con:

  • Mart, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto – Nuovo sito web, 2021
  • Triennale Design Museum – Produzione audio nelle sale espositive, 2019
  • MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo – Progettazione e programmazione di un chatbot, 2018-2020
  • Palazzo Ducale, Mantova – Audioguida al palazzo su Webapp, 2022
  • Museo delle Macchine da Scrivere “Peter Mitterhofer”, Parcines – Film in VR, 2022 (trailer)
  • Scuderie del Quirinale – Audioguide su Webapp delle mostre “Tota Italia” e “Inferno”, 2019-20
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A Mission for the Jewish Museum of Venice

After six hours of hard work we raised our heads from the notepads and looked at each other: the Jewish Museum of Venice now had a mission. Well, it always had had one, of course, but there were no words to convey it: I’m certain you see the irony of a Jewish community struggling to turn life into words.

So we had to debate, argue, and then write it down. And there it was. It was a good mission – it was a joy for the eyes, it was useful, it looked honest and empowering.

The Jewish Museum of Venice believes that the sharing of stories builds a community. For 60 years now, we have done our best to be compelling narrators of Jewish history. We are the guardians of an amazing cultural heritage where everyone can discover themselves in a millennial encounter with otherness.

Is there anything more Other, to an Italian, than being in Venice? I doubt it. Venice may be temporarily thought of as “Italy”, but you just need to scratch the seaweed and you’ll discover an altogether different story.

Is there any kind of Otherness more radical than being Jewish? Venice Jews: the place where the word “ghetto” originates from. That’s as Other as it gets.

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But let’s be focused: the museum acknowledged the encounter with Otherness as the core idea about who it is and what it does. Could we devise ways to translate this into manageable actions?

If you want to meet others, there should be someone who greets them. This called for a renewed effort, on the museum’s part, to engage the young members of the Jewish community. We gathered some of them and produced 360° photos to upload on Google Street View. We opened an instagram account and decided we didn’t want “influencers”: we wanted the staff and community members to feel confident that their own voices would be welcome, and yes, they were entitled to tell stories about the museum. Like @franzheller with his unique, ironical look on things. His presence on Instagram is Jewish, Venetian, LGBT, professional, informal. That’s the way to go.

franz heller mev museo ebraico venezia on instagram

We also reached out to the local Wikipedia community, made sure we learned their rules, and then wondered if we could create value; we found out we could, and we improved their page on Daniel Bomberg, a belgian printer whose Talmud – one of the first to be printed at all, around 1520 – is in Venice.

We addressed issues of relationships between the wardens and the audience, and identified steps that could be undertaken in order to improve things.

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We developed a new voice on Facebook, one that would be faithful to the idea of a “compelling narrator”, and “guardians of an amazing cultural heritage”. This means, among other things, feeling entitled to tell stories about jewish cinema, recipes and jokes. If you understand Italian, follow https://www.facebook.com/museoebraicove/ for some sharp, bitter laughs on Monday mornings.

My work with the staff finished months ago. They tell me they see “more followers and more engagement on social media; we meet more teenagers now, they’re bright and sharp; they help us to organize concerts ad parties and they asked us to have meeting rooms and a free admission monthly date.”

Most of them aren’t Jewish, by the way. But that’s precisely the point.

Giorgio Manganelli, a great, obscure Italian author, during the Eighties wrote that what’s wrong with the western civilization is its unwillingness to acknowledge that there is in fact a Fundamental Question (yes, just like in the Hitchhiker’s Guide to the Galaxy).

Only that this Question is in fact “Am I Jewish, deep down inside?”

Of course the answer is not 42 but “hell, yes”.

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Il museo, la città, i lupi

“Sono mille anni che cerchiamo di venire a capo del nostro rapporto col lupo, e non ci siamo ancora riusciti”. Me l’ha detto ieri Carlo Maiolini, un ricercatore del MUSE, il Museo di Scienze di Trento, per il quale ho progettato – con il supporto tecnico di Dimension Srl – Wolfbot, un chatbot che gira su Facebook Messenger. Potete provarlo andando su m.me/musetrento.

Ci vorranno mille anni anche per risolvere il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale? Magari meno. Il lupo è l’altro da noi, tranne quando ricordiamo Srebrenica o Marzabotto, e questo ci deprime. I software sono l’altro da noi, tranne quando li programmiamo, che invece è un’esperienza esaltante.

Wolfbot invita il pubblico del MUSE a scoprire le opere degli otto artisti della mostra “Lupi in città“. Il  museo ha molto da offrire per conoscere questo animale così ingombrante, grazie al lavoro svolto nel progetto europeo Life Wolf Alps. Un assistente digitale lupesco non doveva rubare la scena alla mostra, ma dare l’opportunità ad un pubblico ampio – che è già su Messenger, che è già a Trento per i mercatini di Natale ma magari non conosce il MUSE – di vivere un’esperienza di qualità: ascoltare la voce degli artisti, vedere la città in un modo nuovo, entrare in un locale e dire una parola segreta a un barista.

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Valentina Miorandi usa Wolfbot di fronte alla sua opera 'DRIFTERS' alla Galleria Civica di TrentoEcco Valentina Miorandi, una delle artiste del progetto, che prova Wolfbot di fronte alla sua stessa opera, che parla di approccio alla conoscenza tramite gli algoritmi (so che apprezzerete la sottile ironia).

Naturalmente ci sono anche cose da imparare: però le informazioni chiave arrivano dagli artisti, tramite degli audio da ascoltare e ricordare, e non da Wolfbot

 

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In questo gioco si cammina, si ascolta, si para con le persone, si mangia, si visita una città

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Il punto è quindi se i chatbot possono essere uno strumento per distribuire contenuti in modo razionale (perché operano su canali già scelti dal pubblico, e con interfacce familiari), e per migliorare l’esperienza di scoperta di un progetto culturale. Per capirlo, bisogna provare a governarli, questi strumenti, a tradurre linguaggi, sguardi e punti di vista, e a cercare di superare le limitazioni del formato (Messenger).

Bisogna anche, a mio parere, rinunciare al miraggio dell’open source sempre, e scegliere invece software proprietari di qualità, come quelli appunto di Dimension, che permettono di sviluppare meccanismi di gioco, attivazione/disattivazione contestuale del bot, gestione di audio, video e sistema di cards, geolocalizzazione, intelligenza artificiale.

Infine, è necessario capire in fase di sviluppo del progetto quali contenuti necessitano di una cura sartoriale, e quali invece vadano totalmente automatizzati. Fingere che esistano solo i primi conduce a “meglio non fare niente”, la linea comune a perfezionisti e culi di pietra. Fingere che esistano solo i secondi ci mette alla mercé dei markettari imbruttiti (e dei dirigenti che non colgono la differenza tra professionisti del digitale e markettari imbruttiti – o meglio, che fingono di non coglierla per poter avere una riserva di caccia in cui sfogare l’imbruttimento che non si concedono altrove).

Progettare e governare la coesistenza tra automazione e qualità ci permette invece di restare rilevanti e di non guardare anche questa rivoluzione dalla finestra.

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Prototipare secondo Tim Powell

In uno dei primissimi interventi a Museum Next 2017 a Rotterdam, Kathleen Gardner, Director of Innovation al Minneapolis Institute of art, ha detto che:

Nello stesso momento, nell’altra sala, Tim Powell, Digital Producer agli Historic Royal Palaces di Londra presentava The Lost Palace, un’esperienza di visita audio interattiva straordinaria, il cui slogan è “hai mai sentito il cuore di un re battere nelle tue mani?”. Dal punto di vista gestionale e produttivo, la chiave del successo, ha spiegato Powell, è stata l’adozione di un modello industriale di ricerca e sviluppo, con una open call alle comunità di creativi per creare prototipi.

“Come non morire di eccellenza”, di Adam Lerner, direttore del Museo di Arte Contemporanea di Denver, ha chiuso il cerchio con una riflessione sul fatto che i musei – sempre molto bravi nel mostrare i prodotti finiti – devono diventarlo anche nel rendere conto del caos creativo e della processualità. L’intervento di Lerner – una bomba – si può vedere qui.

Imparare a sviluppare prototipi può essere la chiave per liberarsi dall’ossessione del perfezionismo, accettare il caos, e quindi diventare più bravi?

Ecco una mia intervista a Tim Powell in cui affrontiamo la questione.

 

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Ce n’est qu’un débOt

Il 5 giugno 2017 terrò un workshop al Digital Think-In lab del Maxxi di Roma, il Museo Nazionale delle Arti del XXIesimo secolo. Si tratta di uno degli incontri nell’ambito di Maxxi Know How, il programma di alta formazione lanciato dal museo.

Al Maxxi di Roma, il 5 giugno 2016, un laboratorio di Luca Melchionna sui bot e le istituzioni culturali

(Quanto mi piacciono le immagini della comunicazione del Maxxi)

Parlerò di chatbot, di automazione e di personalizzazione delle relazioni tra le istituzioni culturali e i suoi pubblici. Ma di chiacchiere ce ne saranno molto poche. Nel mio workshop proveremo a progettare, programmare, scrivere e pubblicare un bot.

Le ore a disposizione sono poche, ma i mesi che abbiamo di fronte per capire se le interfacce conversazionali ci possono aiutare sono molti.
Quindi ce n’est qu’un débot.

Da non perdere: il bot di Netflix su Better Call Saul.

 

 

Giovanni Segantini - L'Ora mesta, (1892). Collezione privata in deposito alla Galleria Civica G. Segantini di Arco
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Segantini e Arco: il sito web

Dall’11 maggio 2017 è online www.segantiniearco.it, il sito web del progetto “Segantini e Arco”. Ne ho curato il progetto editoriale, lavorando con Caterina Gasperi di evoq per la grafica e Cristian Pozzer per la parte informatica.

Segantini e Arco - il sito web

Segantini e Arco – il sito web

Il bello di questo progetto, nato nel 2015 e di cui la parte web è solo l’ultimo tassello, è che è uno di quei casi in cui le istituzioni culturali lavorano davvero insieme, con risultati e ricadute positive, senza tante chiacchiere.

Il MAG, Museo Alto Garda, gestisce tra le sue sedi la Galleria Civica G. Segantini di Arco, che è il paese natale del grande pittore italiano. Il Mart di Rovereto, che è a pochi chilometri da Arco, possiede opere di Segantini, fondi archivistici (come la corrispondenza con Grubicy nel Fondo Grubicy-Benvenuti), relazioni istituzionali internazionali e soprattutto le intelligenze curatoriali necessarie per far vivere i contenuti.

Nell’era della riscoperta dell’autorevolezza degli esperti – che ancora non è arrivata, beninteso, ma non mancherà poi molto – mettere a frutto il genius loci vuol dire questo: trovare le soluzioni amministrative e gestionali per far lavorare insieme i luoghi autentici e le istituzioni complesse su cui una comunità ha investito soldi e attese.

Ecco quindi i risultati:

  • Fino al 2015 per leggere la biografia di riferimento di Giovanni Segantini, bisognava sapere il tedesco, perché nessuno aveva mai tradotto il volume “Giovanni Segantini: sein Leben und sein Werk”, pubblicato da Franz Servaes a Vienna nel 1902.
    Il progetto di Arco, diretto da Alessandra Tiddia del Mart si è fatto carico della traduzione, affidata ad Andrea Pinotti.
    Ora quindi il testo è disponibile in italiano – e vi assicuro che è una lettura molto più che emozionante: se vi interessa la storia non dico dell’arte ma anche solo del pensiero occidentale durante la transizione verso la modernità, questo testo vi servirà.
    Potete leggerlo online, in versione integrale, su segantiniearco.it
    Ma online ci sono anche le scansioni dell’originale del 1902, se è questo che vi dà il friccicorìo ai polpastrelli (a me lo dà). Potete sfogliarle a questo link.
    Oppure potete farvi un giro ad Arco, vedere le pagine su maxischermo nelle postazioni “Segantini Doc“, all’ingresso della Galleria Civica, poi uscire, guardare il paesaggio e scoprire che Segantini, in Engadina, non dipingeva solo le montagne che vedeva ma anche quelle che ricordava.
  • Fino a qualche tempo fa, se volevate sapere quante sono, dove si trovano e che aspetto hanno tutte le opere di Giovanni Segantini conservate in musei internazionali, auguri. Ora si può fare, perché il progetto Segantini e Arco ha mappato e documentato tutto.

    Giovanni Segantini - L'Ora mesta, (1892). Collezione privata in deposito alla Galleria Civica G. Segantini di Arco

    Giovanni Segantini – L’Ora mesta, (1892). Collezione privata in deposito alla Galleria Civica G. Segantini di Arco

    In Galleria potete consultare i dati su maxischermo: 300 immagini da 74 musei di tutto il mondo, zoomabili fino alla singola pennellata.
    Su segantiniearco.it potete cercare tutte le opere per titolo, anno, opera, tecnica o museo.

  • Il dibattito scientifico sul divisionismo e su Segantini è molto attivo. “Segantini e Arco” organizza convegni specialistici di alto livello, e pubblica i risultati in una collana, intitolatsegantiniana 2 copertinaa Segantiniana. Studi e ricerche. L’ultimo volume, appena stampato, è sfogliabile interamente online, e contiene saggi di Alessandra Tiddia, Sara Gimona e Tatiana Marini, Annie-Paule Quinsac, Gioconda Leykauf-Segantini e Daniel Kletke, Ilaria Cimonetti, Annalisa Bonetti, Sergio Fant e Roberta Bonazza.Su segantiniearco.it/it/segantiniana sono sfogliabili anche tutti i cataloghi delle mostre prodotte nell’ambito del progetto.
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Sintesi per logorroici

“Porta un romanzo, un quotidiano, e un asciugamano.”

Queste le risicate istruzioni per i partecipanti a “Sintesi per logorroici”, il mio workshop pensato per aiutare chi sta cercando la giusta misura nella comunicazione istituzionale o d’impresa. Una puntata pilota di questo nuovo formato si è svolta al Mart di Rovereto domenica 5 marzo 2017. Se guardando le foto pensate che sembro Saul Goodman sappiate che me ne sono accorto e oggi mi sono tagliato i capelli.

sintesi per logorroici (4)

Siamo partiti con un’autovalutazione della logorrea percepita – io ad esempio mi sono definito un introverso laconico con rare ma letali punte di logorrea in momenti di stress. E poi abbiamo cominciato a parlare, parlare, parlare. Un po’ fight club, per capirsi, ma si parlava di libri. Gradualmente abbiamo cercato di dare una struttura alle parole, imponendo dei limiti precisi a quello che stavamo dicendo, sia in termini di quantità che di qualità.
Nella comunicazione istituzionale si fa molta fatica a essere brevi e chiari. Uno dei motivi, penso, va ricercato nel basso potere negoziale degli uffici stampa rispetto alle richieste delle dirigenze, che sono spesso a digiuno di competenze comunicative e incapaci di delegare. I logorroici sono i capi, insomma, e magari lavorano con persone senza contratti, senza diritti, e senza voce che non sia quella di una logorrea prudenziale di riflesso.

Quello che serve è quindi l’esperienza della libertà nei confronti del testo.

Solo che

la libertà senza limiti uccide la libertà (Tzvetan Todorov, “The Fear of Barbarians”, p.153)

quindi il primo atto che dobbiamo osare per conquistare libertà nei confronti di testi farraginosi da editare è quello di imporre dei limiti alla nostra azione. L’esercizio “dialoghi laconici” puntava a questo, e i partecipanti sono stati straordinari. Ne sono uscite un paio di perle, tra cui un bell’endecasillabo, “l’amara morte di una bella donna”.

La seconda parte del mio workshop prevedeva tre esercizi

  • Editorial Detectives
  • Il rasoio di Occam
  • Il dettaglio che luccica

Siamo riusciti a finire solo il primo, ma è stata una lunga e bella cavalcata. Per imparare a fare sintesi, ci siamo detti, alleniamoci a scrivere titoli. E i titoli che funzionano sono quelli che da un lato non tradiscono il contenuto, ma dall’altro rispondono alla domanda del lettore “cosa c’è di interessante per me?”
Per poter immaginare delle risposte a questa domanda, bisogna sapere chi sono i lettori dei mezzi di comunicazione, e quindi decrittarne le linee editoriali. Che non è proprio una passeggiata.

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L’asciugamano doveva servire per comporre brevi testi che girano intorno a un particolare. Il riferimento testuale era Douglas Adams, e quello  visivo “La morte di Marat” di Jacques-Louis David.

In conclusione, la logorrea non è tanto male. Se gestita, ha un potenziale di relazione che noi introversi magari invidiamo. E per cavarne un po’ di sintesi non bisogna eliminarla, ma solo darle ritmo, codici, direzione.

(si nota la tripartizione enfatica finale?)

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Mission: Possible

Si è concluso da poco a Torino il corso di Social Media Marketing per la Cultura, che ho tenuto per conto di Fondazione Fitzcarraldo insieme a Luisella Carnelli.

Lavoro in gruppo durante

Lavoro in gruppo durante il corso

Come nell’edizione precedente, lo sforzo che abbiamo chiesto ai partecipanti è stato quello di posporre la naturale curiosità sugli strumenti e le tecniche, e di attraversare una valle di lacrime costellata di pericoli. Le sabbie mobili della mission; il deserto della definizione degli obiettivi; la zona umida dell’ascolto dei pubblici; il nido di vespe della scelta di criteri di misurazione dei risultati. E infine un autentico girone della morte: diventare consapevoli che lavorare col digitale nella cultura, in Italia, oggi, significa prendersi la responsabilità del cambiamento istituzionale e dello sviluppo della leadership.

Solo dopo ci siamo concessi un’analisi degli strumenti a disposizione – e questo ha permesso di affrontare e fissare un punto che nelle istituzioni culturali italiane non è acquisito, ma che viene invece chiesto dalle politiche europee, dai più bravi della classe in giro per il mondo, e da chi è disposto a finanziare la cultura: i social media e il digitale hanno senso solo se non sono pensati come “qualcosa d’altro” rispetto all’istituzione.

Chiara Bernasconi, Assistant Director del Dipartimento di Digital Media del MoMA di New York è stata con noi in collegamento hangout durante il secondo giorno, e ci ha raccontato l’approccio del grande museo americano al digitale. Ecco una delle sue slide: la rivoluzione copernicana per mettere il visitatore al centro della progettazione museale è stata il punto di incontro tra le nostre discussioni e la sua testimonianza.

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Io, per dire, sono ipercurioso dei giochi in sviluppo da parte del MoMA

Il corso si è concluso con una doppia sessione de “Il Virus“, il gioco di ruolo da me ideato per provare a sviluppare una strategia digitale. Sono rimasto colpito dal talento, dalla capacità di collaborazione e dalla resistenza allo stress di tutti i partecipanti.

Molte delle domande più bollenti di #fitz_smm2016 restano solo eroicamente abbozzate: come adottare nei musei una cultura del dato, se i dirigenti sono i primi a rifiutarla –  o perché non compresa, o perché compresa fin troppo bene e detestata? Come raggiungere e coinvolgere i pubblici refrattari? Come impostare una strategia digitale senza soldi, senza tempo e senza competenze? Come evitare che i giocatori di Pokemon GO si spalmino sul colonnato?

La prossima edizione del corso si svolge sempre a Torino dal 16 al 18 novembre 2017.

Con Fitzcarraldo stiamo poi lavorando per sviluppare ulteriori momenti di approfondimento rivolti a chi ha già frequentato SMM, più orientati al lavoro progettuale-pratico e alla condivisione di opportunità lavorative.

http://lucamelchionna.blog/info/
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The Virus in Amsterdam

My role playing game “The Virus” is ready for its European debut. I will be playing a freshly revised version of it on wednesday 18 November in Amsterdam. I will be teaming with Jasper Visser who invited me to go dutch after I did a series of installments of “The Virus” in various italian locations including Turin, Bolzano and Bologna.

The Virus a role playing game for museums professionals by Luca Melchionna

The Virus. A dilemma.

The concept of the game is quite simple: aimed at students or junior professionals, it lets players experiment how actual communication strategies are developed in museums, theaters or center for performing arts. Unlike other workshops on issues of strategy, “The Virus” is not meant to provide tools, skills or a method. It is a complex game environment devised to imitate reality “as it is” and not “as it should be”: the game narrative has plenty of potential conflicts, budget issues, personality clashes and PR disasters. But of course it also allows for empathy, team collaboration, hints about audience development and ways to integrate artists’ visions into successful communicaton strategies. The role playing time, which lasts around one hour and a half, is followed by an open discussion, that draws on the insights gathered through personal stories.

Players get usually very involved during gameplay, and therefore find it easier to access the final evaluation stage on a level that is not only intellectual but also emotional.

The Virus a role playing game for museums professionals by Luca Melchionna

The Virus at Fondazione Fitzcarraldo, Turin

Modeled after my professional experience in Italian museums, The Virus has been reshaped to take the italian-bias out – but I’m not sure I managed to do this. I’ll find out on wednesday.

The Virus a role playing game for museums professionals by Luca Melchionna

The Virus explained. Or maybe not so much.