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Il museo, la città, i lupi

“Sono mille anni che cerchiamo di venire a capo del nostro rapporto col lupo, e non ci siamo ancora riusciti”. Me l’ha detto ieri Carlo Maiolini, un ricercatore del MUSE, il Museo di Scienze di Trento, per il quale ho progettato – con il supporto tecnico di Dimension Srl – Wolfbot, un chatbot che gira su Facebook Messenger. Potete provarlo andando su m.me/musetrento.

Ci vorranno mille anni anche per risolvere il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale? Magari meno. Il lupo è l’altro da noi, tranne quando ricordiamo Srebrenica o Marzabotto, e questo ci deprime. I software sono l’altro da noi, tranne quando li programmiamo, che invece è un’esperienza esaltante.

Wolfbot invita il pubblico del MUSE a scoprire le opere degli otto artisti della mostra “Lupi in città“. Il  museo ha molto da offrire per conoscere questo animale così ingombrante, grazie al lavoro svolto nel progetto europeo Life Wolf Alps. Un assistente digitale lupesco non doveva rubare la scena alla mostra, ma dare l’opportunità ad un pubblico ampio – che è già su Messenger, che è già a Trento per i mercatini di Natale ma magari non conosce il MUSE – di vivere un’esperienza di qualità: ascoltare la voce degli artisti, vedere la città in un modo nuovo, entrare in un locale e dire una parola segreta a un barista.

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Valentina Miorandi usa Wolfbot di fronte alla sua opera 'DRIFTERS' alla Galleria Civica di TrentoEcco Valentina Miorandi, una delle artiste del progetto, che prova Wolfbot di fronte alla sua stessa opera, che parla di approccio alla conoscenza tramite gli algoritmi (so che apprezzerete la sottile ironia).

Naturalmente ci sono anche cose da imparare: però le informazioni chiave arrivano dagli artisti, tramite degli audio da ascoltare e ricordare, e non da Wolfbot

 

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In questo gioco si cammina, si ascolta, si para con le persone, si mangia, si visita una città

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Il punto è quindi se i chatbot possono essere uno strumento per distribuire contenuti in modo razionale (perché operano su canali già scelti dal pubblico, e con interfacce familiari), e per migliorare l’esperienza di scoperta di un progetto culturale. Per capirlo, bisogna provare a governarli, questi strumenti, a tradurre linguaggi, sguardi e punti di vista, e a cercare di superare le limitazioni del formato (Messenger).

Bisogna anche, a mio parere, rinunciare al miraggio dell’open source sempre, e scegliere invece software proprietari di qualità, come quelli appunto di Dimension, che permettono di sviluppare meccanismi di gioco, attivazione/disattivazione contestuale del bot, gestione di audio, video e sistema di cards, geolocalizzazione, intelligenza artificiale.

Infine, è necessario capire in fase di sviluppo del progetto quali contenuti necessitano di una cura sartoriale, e quali invece vadano totalmente automatizzati. Fingere che esistano solo i primi conduce a “meglio non fare niente”, la linea comune a perfezionisti e culi di pietra. Fingere che esistano solo i secondi ci mette alla mercé dei markettari imbruttiti (e dei dirigenti che non colgono la differenza tra professionisti del digitale e markettari imbruttiti – o meglio, che fingono di non coglierla per poter avere una riserva di caccia in cui sfogare l’imbruttimento che non si concedono altrove).

Progettare e governare la coesistenza tra automazione e qualità ci permette invece di restare rilevanti e di non guardare anche questa rivoluzione dalla finestra.

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