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Sesso, Genere, Dolore, Dio

MDLSX dei Motus e la crisi di rigetto cattolica verso gli io che si costruiscono “contro” il mondo

“L’impossibile arriverà e l’inimmaginabile è inevitabile”, è un verso tratto dal “Manifesto Animalista” di Paul B. Preciado, messo come sigillo in un volantino triangolare rosa con le informazioni essenziali dello spettacolo MDLSX, della compagnia teatrale Motus, che ho visto a Centrale Fies il 31 luglio scorso. E’ anche una frase che non sarebbe stonata in bocca a uno scrittore cattolico graffiante e rancoroso del secolo scorso, come Chesterton o Graham Greene. Ma la cultura cattolica da molti decenni ha rinunciato a pensare l’impossibile, e quindi Chesterton resta appeso lì, come un albero a forma di punto di domanda visto durante un viaggio intrapreso mentre si è rosi dal dubbio.
I Motus, vincitori del premio UBU nel 1999, da decenni mettono in scena un conflitto tra le generazioni e le identità incentrato sulla crisi del maschile, del patriarcato, del Senso, del principio ordinatore, insomma di Dio – il tema dei temi, che condivide con il mal di denti la caratteristica di restare tale anche se eviti di pensarci. MDLSX racconta una storia di ermafroditismo, di dolore per l’impossibilità di assumere un’identità di genere in un mondo in cui la vaghezza su questo punto non è tollerata, dell’introiezione da parte della vittima della rabbia del carnefice patriarcale e infine della decisione di potere e volere uscire dalle categorie portandosi dietro il mondo intero in questa liberazione dal bisogno di appartenenza. La storia procede su un binario parallelo, mischiando brandelli di autobiografia della performer Silvia Calderoni con spezzoni del romanzo “Middlesex” di Jeffrey Eugenides, quello de “Le vergini suicide”. Siamo in pieno postmoderno: lo sdoppiamento della voce narrante fa pensare al “Lanark” di Alasdair Gray; la dittatura di frammento, cut up e remix è efficacemente rinforzata dal fatto che la scena è un dj-vj set in cui Calderoni orchestra una “playlist” di canzoni – il vero cordone ombelicale tra le musicassette e Spotify – che si conclude con “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” degli Smiths.
Il punto di questo post – a cui arrivo fra un secondo – è tutto nella frase più bella di quella canzone: “per favore, per favore, per favore, lasciami avere quello che voglio; Dio solo sa che sarebbe la prima volta.” La prima volta. Chi vuole fare sè stesso non sta capovolgendo un Ordine. Lo sta cercando per la prima volta. La reazione di empatia o di disgusto che, a seconda dei punti di vista, possiamo provare per chi osa costruire la propria identità, non ha niente a che fare con la questione. Per gli eterossessuali è difficile da capire, a meno di essere apolidi, neri, terroni, balbuzienti, grassi, insolitamente alti, patologicamente timidi, ebrei, cristiani – oops, a quanto pare qui c’è un bug.

Tra i sostenitori del movimento LGBT, tra chi ritiene che si possa essere felici solo se lo sono anche gli altri, tra chi non pone limiti preventivi alla possibilità di immaginare spazi di libertà e di rivendicarli come diritti civili – tra quelli noti insomma in questo paese feroce come “buonisti”, si sente spesso ripetere che “la teoria gender non esiste.” Il brutale sottinteso è “chi chiede la messa al bando della teoria gender è non solo un bigotto, ma anche un ignorante.” Ora, posto che effettivamente è vero che la “teoria gender” come tale non esiste, io trovo che l’argomento dei buonisti sia falso. Il bigotto usa una semplificazione infarcita di falsità, ma lo fa per dire una cosa vera, e cioè che la distruzione del principio ordinatore in atto nella civiltà occidentale non è semplicemente qualcosa che avviene, ma è un processo che è in parte anche teorizzato – appunto da Paul B. Preciado, ad esempio, e se uno vuole fare il fino potrebbe spingersi fino a Cartesio – e magari a Gesù Cristo. Questo modo di comportarsi, dar voce a una preoccupazione reale (su cui si può dissentire, ma che reale resta) usando un’argomentazione fallace non è infrequente, in un certo senso è la firma della realtà. E’ estraneo alla logica, ma non alla storia della scienza. Come ha dimostrato Paul Feyerabend in “Contro il Metodo“, perfino Galileo ha usato questa scorciatoia. Insomma, i bigotti dovrebbero studiare di più, molto di più, ma il loro dolore, la loro confusione, la loro angoscia sono reali, e il disprezzo che ricevono in faccia è indegno della sofisticazione culturale dei buonisti. Questa messa in scena per cui negli ambienti “liberati” si finge che il dolore dei bigotti non esista – solo perché è ridicolo ed esteticamente impresentabile – è una porcata che puzza molto, ironicamente, di bisogno d’identità.

 
Il problema è però complicato dal fatto che i bigotti sembrano del tutto incapaci di comprendere perché il pensiero occidentale stia teorizzando la morte di Dio. E questo, paradossalmente, nonostante il monoteismo – un sistema religioso che nega l’esistenza di quasi tutti gli dei – e nonostante anche la fede nel Dio incarnato che dichiara sulla croce l’abbandono dal Divino. Nel caso specifico, i cattolici sembrano non capire che la richiesta di “costruire la propria identità” non arriva da chi ce l’identità ce l’ha già, ma da chi se l’è vista negare. Chi rivendica per sè un’identità fluida reagisce al dolore di nascere mostro. Chi non ha provato questo dolore dovrebbe star zitto e ascoltare. Ma i bigotti questo dolore non lo vogliono sentire, non lo vogliono vedere, non lo vogliono leggere. Messi di fronte all’inevitabile, fingono spesso che le posizioni dell’interlocutore siano diverse da quelle reali, e ascrivono ai “buonisti” la volontà di cambiare le identità di genere per tutti. L’ermafrodita, l’omosessuale, l’asessuale, il disabile – sono invece per definizione persone a cui è stata già cambiata l’identità sessuale rispetto alla norma, e quindi la richiesta di ricostruire se stessi non può essere altro che un’assunzione di responsabilità di fronte alla realtà: la realtà è complessità emergente, che si crea da sola, e se vogliamo essere nella realtà dobbiamo giocare la stessa partita. Che è poi quanto ci aveva proposto il cristianesimo: non siamo condannati a subire il non senso del mondo, ma possiamo parteciparne alla creazione.

Questa messa in scena per cui negli ambienti bigotti si finge che il dolore dei gay non esista – solo per paura di guardarsi dentro – è una porcata indegna dell’elaborazione culturale millenaria a cui professano di appartenere.

MOTUS MDLSX © Alessandro Sala/CESURA per Centrale Fies

MOTUS MDLSX © Alessandro Sala/CESURA per Centrale Fies

Perché siamo intrappolati nella scelta tra due narrazioni, quella della “difesa della famiglia naturale” e quella della “fuoriuscita dalle categorie”? C’è una cosa che hanno in comune, questi due discorsi: la tendenza a non approfondire il dato biologico, visto come un inciampo “tecnico”.  Perché nella specie umana il sesso esiste?  Perché esistono due generi? La realtà trabocca di specie senza riproduzione sessuata, con sette generi diversi, di individui che cambiano genere, di specie che avevano dei generi ma poi li hanno persi. Nei serpenti, gli XY sono femmine. Nel timo selvatico, metà individui sono femmine, metà ermafroditi.

A quanto pare, il sesso nell’uomo esiste non per “un dono”, nè per essere negato, nè per essere costruito. Esiste per darci un vantaggio competitivo nella lotta ai parassiti che vivono dentro il nostro corpo. Forse dovremmo semplicemente studiare più biologia alle elementari.

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Sono un giornalista e un consulente per musei

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