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Discorso di insediamento al contrario

Respingo al mittente le cortesi quanto vacue parole sentite poco fa e rivolgo un deciso ghigno di scherno alle boriose autorità presenti, a quel ladro del Sindaco, all’architetto Ceffoni – noto impotente – a questa patetica scusa di Presidente qui accanto, e al debole, irresoluto Direttore uscente che ho il dispiacere di conoscere dai tempi del liceo e che ora mi tocca di nuovo incontrare – sopportando il peso osceno dell’inevitabile decadimento biologico di entrambi. Una sonora pernacchia ai molti che dimenticherò – sappiate che sono omissioni volute.

Mi perderò in chiacchiere, è bene dirlo subito. Non ho nessuna intenzione di affrontare le molte e urgenti questioni che aspettano fuori da questa aula di stupidi privilegiati. Non l’ho mai fatto, non inizierò certo ora che mi sono sistemato. E tuttavia sarebbe presuntuoso da parte mia presumere di inaugurare uno stile di inazione assoluta. So bene di avere una storia dietro di me – una viscida storia fatta di dissimulazioni indegne, scelte casuali, corruzione delle regole, acquisti raddoppiati per distrazione, progetti inutili avviati in ritardo e assegnati a persone senza competenze, ristrutturazioni che hanno sfasciato lo sfasciabile, estromissioni calcolate delle menti più brillanti e campagne di violenza psicologica che hanno fatto tabula rasa dell’entusiasmo e della competenza.

Ebbene, io intendo continuare quest’opera. Non vi lascerò soli. Non quando là fuori gruppi di invasati premono per sapere e per giudicare.

Questa è l’epoca, cari imbecilli, in cui dobbiamo prescindere dal territorio. Uno snodo chiave questo, a volte poco compreso. Se guardate con attenzione, nella nostra comunità vedrete ovunque persone che lavorano, rischiano, mettono in contatto estranei, producono valore. Tutto questo – e lo dico con la consapevolezza di usare termini forse troppo blandi – è un pericolo mortale. Sono cose che non si devono fare, signori miei: si devono semplicemente dire. Io le dirò, e voi, spero, le direte con me. Saremo un coro assordante, e spesso non servirà nemmeno aprire la bocca.
[Abbassando lo sguardo agli appunti, in tono più asciutto] Sono capace di individuare la complessità, penso di averlo dimostrato, distruggendola senza sosta: ora metterò questa mia dote al servizio di questo luogo. Per disfare reti, per puntare all’insostenibilità, per favorire l’isolamento.
Prima che pensiate di avere di fronte un superbo, luridi tacchini, fatevelo dire: lo sono eccome. Fare da soli: questo fa la differenza, oggi, ed è proprio su questo che imposterò l’azione della struttura che ho la sfiga, oggi, di dirigere. So di essere circondato da incapaci, ma so anche di avere strumenti meravigliosi a disposizione. Guarderò al merito delle questioni. Nuove tecnologie? Sì, ma solo se alienanti. Sconti sui servizi ai dipendenti, sostegni alle famiglie? Neanche per sogno – chi lavora va scoraggiato, non premiato. Accordi internazionali? Può darsi, ma solo se a nostro detrimento.

Prima di concludere, una parola sullo stile che intendo adottare nei rapporti con i privati. Il nodo è ormai ineludibile. Sicuramente, da questo punto di vista, ci sono state delle incertezze nella pessima gestione di chi mi ha preceduto. Forse non ho la risposta perfetta, ma una cosa la so: dobbiamo rendere im-pos-si-bi-li le partnership con i privati. Non rifiutarle, che sarebbe troppo semplice. Dobbiamo accettare le offerte di questi piccoli, pidocchiosi, ignoranti ciccioni che si credono chissacchì solo perché hanno i soldi. Solo che li sprecheremo. O sì, li sprecheremo, ma senza trarne profitto personale.
Perché la miseria, l’ignoranza e l’immobilità sono beni troppo preziosi. Appartengono a tutti. Contate su di me per averne un po’ di più – magari poco alla volta, ma senza interruzioni.

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Sesso, Genere, Dolore, Dio

MDLSX dei Motus e la crisi di rigetto cattolica verso gli io che si costruiscono “contro” il mondo

“L’impossibile arriverà e l’inimmaginabile è inevitabile”, è un verso tratto dal “Manifesto Animalista” di Paul B. Preciado, messo come sigillo in un volantino triangolare rosa con le informazioni essenziali dello spettacolo MDLSX, della compagnia teatrale Motus, che ho visto a Centrale Fies il 31 luglio scorso. E’ anche una frase che non sarebbe stonata in bocca a uno scrittore cattolico graffiante e rancoroso del secolo scorso, come Chesterton o Graham Greene. Ma la cultura cattolica da molti decenni ha rinunciato a pensare l’impossibile, e quindi Chesterton resta appeso lì, come un albero a forma di punto di domanda visto durante un viaggio intrapreso mentre si è rosi dal dubbio.
I Motus, vincitori del premio UBU nel 1999, da decenni mettono in scena un conflitto tra le generazioni e le identità incentrato sulla crisi del maschile, del patriarcato, del Senso, del principio ordinatore, insomma di Dio – il tema dei temi, che condivide con il mal di denti la caratteristica di restare tale anche se eviti di pensarci. MDLSX racconta una storia di ermafroditismo, di dolore per l’impossibilità di assumere un’identità di genere in un mondo in cui la vaghezza su questo punto non è tollerata, dell’introiezione da parte della vittima della rabbia del carnefice patriarcale e infine della decisione di potere e volere uscire dalle categorie portandosi dietro il mondo intero in questa liberazione dal bisogno di appartenenza. La storia procede su un binario parallelo, mischiando brandelli di autobiografia della performer Silvia Calderoni con spezzoni del romanzo “Middlesex” di Jeffrey Eugenides, quello de “Le vergini suicide”. Siamo in pieno postmoderno: lo sdoppiamento della voce narrante fa pensare al “Lanark” di Alasdair Gray; la dittatura di frammento, cut up e remix è efficacemente rinforzata dal fatto che la scena è un dj-vj set in cui Calderoni orchestra una “playlist” di canzoni – il vero cordone ombelicale tra le musicassette e Spotify – che si conclude con “Please, Please, Please, Let Me Get What I Want” degli Smiths.
Il punto di questo post – a cui arrivo fra un secondo – è tutto nella frase più bella di quella canzone: “per favore, per favore, per favore, lasciami avere quello che voglio; Dio solo sa che sarebbe la prima volta.” La prima volta. Chi vuole fare sè stesso non sta capovolgendo un Ordine. Lo sta cercando per la prima volta. La reazione di empatia o di disgusto che, a seconda dei punti di vista, possiamo provare per chi osa costruire la propria identità, non ha niente a che fare con la questione. Per gli eterossessuali è difficile da capire, a meno di essere apolidi, neri, terroni, balbuzienti, grassi, insolitamente alti, patologicamente timidi, ebrei, cristiani – oops, a quanto pare qui c’è un bug.

Tra i sostenitori del movimento LGBT, tra chi ritiene che si possa essere felici solo se lo sono anche gli altri, tra chi non pone limiti preventivi alla possibilità di immaginare spazi di libertà e di rivendicarli come diritti civili – tra quelli noti insomma in questo paese feroce come “buonisti”, si sente spesso ripetere che “la teoria gender non esiste.” Il brutale sottinteso è “chi chiede la messa al bando della teoria gender è non solo un bigotto, ma anche un ignorante.” Ora, posto che effettivamente è vero che la “teoria gender” come tale non esiste, io trovo che l’argomento dei buonisti sia falso. Il bigotto usa una semplificazione infarcita di falsità, ma lo fa per dire una cosa vera, e cioè che la distruzione del principio ordinatore in atto nella civiltà occidentale non è semplicemente qualcosa che avviene, ma è un processo che è in parte anche teorizzato – appunto da Paul B. Preciado, ad esempio, e se uno vuole fare il fino potrebbe spingersi fino a Cartesio – e magari a Gesù Cristo. Questo modo di comportarsi, dar voce a una preoccupazione reale (su cui si può dissentire, ma che reale resta) usando un’argomentazione fallace non è infrequente, in un certo senso è la firma della realtà. E’ estraneo alla logica, ma non alla storia della scienza. Come ha dimostrato Paul Feyerabend in “Contro il Metodo“, perfino Galileo ha usato questa scorciatoia. Insomma, i bigotti dovrebbero studiare di più, molto di più, ma il loro dolore, la loro confusione, la loro angoscia sono reali, e il disprezzo che ricevono in faccia è indegno della sofisticazione culturale dei buonisti. Questa messa in scena per cui negli ambienti “liberati” si finge che il dolore dei bigotti non esista – solo perché è ridicolo ed esteticamente impresentabile – è una porcata che puzza molto, ironicamente, di bisogno d’identità.

 
Il problema è però complicato dal fatto che i bigotti sembrano del tutto incapaci di comprendere perché il pensiero occidentale stia teorizzando la morte di Dio. E questo, paradossalmente, nonostante il monoteismo – un sistema religioso che nega l’esistenza di quasi tutti gli dei – e nonostante anche la fede nel Dio incarnato che dichiara sulla croce l’abbandono dal Divino. Nel caso specifico, i cattolici sembrano non capire che la richiesta di “costruire la propria identità” non arriva da chi ce l’identità ce l’ha già, ma da chi se l’è vista negare. Chi rivendica per sè un’identità fluida reagisce al dolore di nascere mostro. Chi non ha provato questo dolore dovrebbe star zitto e ascoltare. Ma i bigotti questo dolore non lo vogliono sentire, non lo vogliono vedere, non lo vogliono leggere. Messi di fronte all’inevitabile, fingono spesso che le posizioni dell’interlocutore siano diverse da quelle reali, e ascrivono ai “buonisti” la volontà di cambiare le identità di genere per tutti. L’ermafrodita, l’omosessuale, l’asessuale, il disabile – sono invece per definizione persone a cui è stata già cambiata l’identità sessuale rispetto alla norma, e quindi la richiesta di ricostruire se stessi non può essere altro che un’assunzione di responsabilità di fronte alla realtà: la realtà è complessità emergente, che si crea da sola, e se vogliamo essere nella realtà dobbiamo giocare la stessa partita. Che è poi quanto ci aveva proposto il cristianesimo: non siamo condannati a subire il non senso del mondo, ma possiamo parteciparne alla creazione.

Questa messa in scena per cui negli ambienti bigotti si finge che il dolore dei gay non esista – solo per paura di guardarsi dentro – è una porcata indegna dell’elaborazione culturale millenaria a cui professano di appartenere.

MOTUS MDLSX © Alessandro Sala/CESURA per Centrale Fies

MOTUS MDLSX © Alessandro Sala/CESURA per Centrale Fies

Perché siamo intrappolati nella scelta tra due narrazioni, quella della “difesa della famiglia naturale” e quella della “fuoriuscita dalle categorie”? C’è una cosa che hanno in comune, questi due discorsi: la tendenza a non approfondire il dato biologico, visto come un inciampo “tecnico”.  Perché nella specie umana il sesso esiste?  Perché esistono due generi? La realtà trabocca di specie senza riproduzione sessuata, con sette generi diversi, di individui che cambiano genere, di specie che avevano dei generi ma poi li hanno persi. Nei serpenti, gli XY sono femmine. Nel timo selvatico, metà individui sono femmine, metà ermafroditi.

A quanto pare, il sesso nell’uomo esiste non per “un dono”, nè per essere negato, nè per essere costruito. Esiste per darci un vantaggio competitivo nella lotta ai parassiti che vivono dentro il nostro corpo. Forse dovremmo semplicemente studiare più biologia alle elementari.

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Google e Pino Pascali

Su Sette del Corriere della Sera, oggi, l’esperto di web Roberto Cotroneo ci offre l’ennesima variante di una geremiade contemporanea di sicuro successo: lamentarsi di un supposto imbarbarimento culturale causato dalla fruizione della cultura attraverso le nuove tecnologie. O meglio le attuali tecnologie, che sarebbe il caso di finirla con questa mania italiana di etichettare come “nuovo” il presente.
“Si può capire Pino Pascali con Google?” è la domanda retorica di Cotroneo. Retorica e logicamente fallace, perché addossa a Google – che qui per metonimia indica tutto il web – la responsabilità di far capire l’arte. Un presupposto più corretto sarebbe stato “Si può almeno scoprire l’esistenza di Pino Pascali con Google, in assenza di altre informazioni?”, ma il problema è che poi toccava rispondere di sì.

“Bachi da Setola” di Pino Pascali, 1968, presa dal sito di Artribune

L’esperimento di Cotroneo è questo: ha osservato una coppia di fronte a un’installazione di Pascali alla GNAM di Roma (non quella della foto qui sopra). Da come li descrive, si capisce che non sono esperti. Sono in un museo, con macchina fotografica e smartphone e sanno poco o nulla di quello che vedono. Sono, quindi, i visitatori più importanti in assoluto per i musei. Il cosiddetto “nuovo pubblico” nei termini fastidiosi del marketing. Persone normali che vogliono conoscere cose che non sanno, perché sentono dentro di sè la voglia di capire – se vogliamo usare un altro linguaggio.

In sala non trovano informazioni se non cognome e nome dell’autore. Un fatto questo, su cui Cotroneo non si sofferma. Cercano informazioni su Wikipedia, poi su Google. Cotroneo chiama beffardamente Google “oracolo”, dando per fatto acquisito ciò che dovrebbe dimostrare, e cioè che questa coppia da Google si attenderebbe “la verità su Pino Pascali”.

In ogni caso, la coppia non resta a secco di informazioni. Solo che sono inadeguate alla comprensione dell’opera di Pascali. O meglio, non c’è modo di sapere se le informazioni fornite da “Google” fossero adeguate, perché, come nota Cotroneo “[i due] non hanno mai finito di leggere una voce su di lui”.

Ma allora qual è il problema, l’inadeguatezza di Google o la mancanza di disponibilità di queste persone ad approfondire? La seconda, evidentemente. E di chi è la colpa?

“Nell’era pre internet – scrive Cotroneo, e intuiamo la lacrimuccia – in un museo avevi tre possibilità. La più semplice era studiare da prima e documentarti su quello che andavi a vedere scegliendo una galleria d’arte. La seconda era comprarti una guida e leggere mentre passi da un’opera all’altra. La terza, relativamente più moderna, metterti alle orecchie le audio guide che ti spiegano le cose.”

La terza soluzione, capiamo dal tono della prosa, non vale. Ma il problema è che tutto questo è falso. Queste erano le alternative che, nell’era pre internet, avrebbe avuto un intellettuale come Roberto Cotroneo. Ma Cotroneo, in questo esperimento, non ha seguito una coppia di intellettuali. Il paragone è sbagliato, e curiosamente è sbagliato in un modo che tende a rafforzare le tesi dell’autore.
Cotroneo si sarebbe dovuto chiedere cosa facevano nell’era pre internet le coppie di persone normali che nelle gallerie d’arte non entrano perché sono intimidite, e che non comprano le guide perché leggono poco o mai. Queste persone, molto semplicemente, non entravano nei musei e non vedevano le opere di Pino Pascali. Adesso ci entrano, per fortuna.
Se la GNAM avesse investito in intelligenze, competenze e tecnologie, avrebbe potuto offrire a queste persone la possibilità di scoprire e forse approfondire, usando audio, video e informazioni contestuali. Ma la GNAM non l’ha potuto o voluto fare, eppure queste persone hanno cercato di capire lo stesso, perché sanno che Google e Wikipedia daranno loro almeno qualche informazione per orientarsi nel mondo vietato degli intellettuali, quello in cui esiste l’arte contemporanea. A me tutto questo sembra indicare un avanzamento di capacità cognitive. Confesso di non essere in grado di valutare invece la portata del cambiamento dal punto di vista culturale, ma ritengo evidente che si possa almeno concludere che oggi le persone che non leggono per intero gli articoli – che non hanno mai letto per intero gli articoli – almeno hanno imparato ad esplorare da sole i luoghi della cultura senza chiedere permesso.

Ho poi controllato la pagina di Pino Pascali su Wikipedia. Effettivamente non era un granché. Mancavano fonti attendibili. Quindi, io che sono un intellettuale, ho modificato e migliorato almeno un pochettino quella pagina, aggiungendo informazioni sull’opera “Bachi da setola” della GNAM di Roma.

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Death and the Museum

In this text by Daniel Libeskind the word “museum” is used as the semantic contrary of “living, vital”. Libeskind thinks that Paris, as a city, has fundamentally rejected the idea of being “vital”, and opted instead for a “museum” image.
You might recall when, last March, the US President Barack Obama, spoke at Selma, Alabama. He was standing at the Edmund Pettus Bridge, 50 yeas after the “Bloody Sunday”, a brutal police crackdown on civil rights marchers.
His speech was great, passionate, and morally unquestionable. But he equated to word “museum” to the expression “static monument to behold from a distance”.

Death mask made of plaster. The Horniman Museum, London

Perhaps we should just accept the notion that “museum” is forever linked to the idea of death, and exploit this for dramatic purposes. After all, death as a concept has a narrative potential that is, well, very vital. Here are some basic ideas.

The Museum of the Living Dead

This is quite obvious. George Romero’s Night of the Living Dead might be unsuitable as an aestethic experience for some museumgoers. What about Poe, then? Surely Poe has been disinfected by the years. Ligeia tells the tale of a marvellous woman who dies, only to return somehow inside the body of another.

How to do it: late hours museum visits where the audience is asked to pick their favourite deceased artist, dress and act like him.  Detailed information about artists required. Great for white-cube museum, who can exploit their ghastly pallor.

Dead All Along

This is another well known pop meme. A bunch of people in a closed environments makes all sort of weird things that defy logical explanation. It turns out they were all dead in the first place.

How to do it: a reversed guided tour. One member of the audience, seven performers who impersonate dead artists and stroll together around the exhibition halls. The intruder’s aim is to convince the artists that they are in fact all dead.  He might point at labels, gather clues of commonly known events happened after the deaths of the others. It could be quarrelsome.

Contagious Exhibits

This really needs no explanation. Cough cough.

How to do it: I see this as a smartphone in-gallery game. You form a group by gathering friends close to an iBeacon. they depart and reach locations. One of them is infected with a disease. He can spread the hideous thing by infecting artworks, and that is done standing in front of them for a sufficient length of time. Other players might purify the infected artworks discovering facts about them. Or die while trying.

Do you have any better ideas of how to exploit the lively allure of death inside a museum? Let me know.

Horror Bike Tours

Bikes are the perfect choice if you want to explore places that induce that kind of tickling. You could plan a tour that includes your museum along a variety of cemeteries, isolated motels, location of not-entirely-forgotten local murder stories, and abandoned powerhouses. That’s what I tried to do here with Komoot.

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Triennale Plus

Il lavoro per lanciare Triennale Plus è quasi terminato. La guida per iPad sviluppata da Explora Museum, e per cui ho coordinato i contenuti, funziona che è una meraviglia sfruttando la tecnologia iBeacon e la straordinaria densità di contenuti della Triennale di Milano. In particolare quelli di “Arts & Foods“, l’esposizione curata da Germano Celant. La mostra è uno dei padiglioni di Expo 2015. Personalmente la trovo affascinante, completa, e molto più divertente di quanto mi sarei aspettato.

La comunicazione ufficiale partirà a breve, ma intanto c’è una cosa da appuntare, che ho verificato di persona trascorrendo diverse ore nelle sale della Triennale. Come già notato al Muse di Trento – dove la guida è in funzione da oltre un anno ed è stata recentemente estesa a tutti i piani del museo – chi usa l’app lo fa spesso in coppia. Tra queste coppie ho notato diversi comportamenti. Uno in particolare mi ha colpito, e ve ne faccio la cronaca, parzialmente fotodocumentata.

1. Due persone si avvicinano all’opera “Chef Pére Paul” di Claude Monet. Hanno una guida a testa. Lei ascolta sull’app le informazioni sull’opera. Lui sta accanto a lei, ignora l’app, osserva il quadro a lungo, prende la sua reflex, lo fotografa.

2. Si spostano due metri più la e ammirano la riproduzione di un bar milanese. Sembrano soddisfatti, divertiti, parlano tra di loro

Triennale Plus. Explora Museum

3. Lui va a cercare una didascalia. Lei controlla se all’installazione corrisponda un punto di ascolto sulla guida. Per questo particolare bar, non c’è nulla

Triennale Plus. Explora Museum

4. Con un movimento che farà disperare i cultori del solipsismo puristico museale e che farà divertire i cultori dell’integrazione tra cultura e realtà, entrambi estraggono contemporaneamente lo smartphone dalle loro borse

Triennale Plus. Explora Museum

5. Entrambi cercano delle informazioni sui loro dispositivi personali

Triennale Plus. Explora Museum

6. Lui telefona a qualcuno, lei guarda di nuovo l’app, scopre che lì vicino c’è un punto di ascolto relativo a un’opera di Georges Braque, e si guarda intorno per capire dov’è

Triennale Plus. Explora Museum

Non sarebbe serio avanzare elaborazioni teoriche con osservazioni così limitate. Uso questo esempio solo per sottolineare un punto: le persone cercano informazioni, lo fanno come vogliono loro, e non amano stare da sole di fronte all’arte. O meglio, a certe persone piace stare da sole di fronte all’arte. Sono gli addetti ai lavori, che sanno già tutto, e hanno bisogno di contemplazione e concentrazione per ragionare. Per molti di loro, l’idea di introdurre schermi, telefoni e macchine fotografiche suona come un impoverimento dell’esperienza di comunione estatica con l’opera d’arte. Queste poche persone, nei musei italiani, che siano pubblici o fondazioni private, decidono tutto.

Per tutti gli altri, però – per il 95% dei visitatori reali e potenziali dei musei, che sono anche i contribuenti i cui soldi hanno permesso la creazione dei musei – tutte queste attività sono un arricchimento dell’esperienza di visita. Parlarsi, leggere informazioni a parete, su uno schermo, su un altro schermo, scattare una foto, cercare gli orari del treno per sapere quando uscire.

Nel flusso di questa attività – complesso, frammentario e multidirezionale tanto quanto il flusso di coscienza interiore di un curatore – quello che ci irrita è non trovare informazioni, o dover sostenere uno sforzo eccessivo per rintracciarle.

E’ per questo che gli iBeacon funzionano: le informazioni appaiono nel tuo raggio d’azione quando ti servono, e scompaiono quando te ne vai. Quel raggio d’azione è molto stretto, perché dentro ci sono altre cose: il passaparola, la telefonata, le fotografie.
Non è lo schermo a fare la differenza: è l’esperienza di trovarsi in un luogo d’arte, in Italia, e sentirsi bene perché le informazioni sono facili da trovare.

Libri di guerra alla Biblioteca Comunale di Trento - Luca Melchionna
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“Libri di Guerra” su Crowdmap

Nell’edizione di MuseumNext che si è tenuta un paio di settimane fa a Ginevra ho avuto occasione di parlare del progetto “Libri di Guerra” durante una sessione di Open Stage, uno dei formati più informali e utili di questo convegno. Subito dopo sono stato invitato a raccontare il tutto su Crowdmap, all’interno di un progetto di mappatura delle esperienze di “genuino coinvolgimento reciproco” tra musei e comunità locali.

Se sui risultati di “Libri di Guerra” sono moderatamente soddisfatto – perché dei 6 libri selezionati siamo riusciti a digitalizzarne solo 3 – sulla “genuinità” di quei coinvolgimenti sono entusiasta. Il progetto è stato presentato a circa una 70ina di adolescenti, grazie all’aiuto del CoderDojo di Trento e della Biblioteca Comunale di Trento (ne raccontavo qui).

Libri di guerra alla Biblioteca Comunale di Trento - Luca Melchionna

Explora Museum
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Explora Museum

I’ve recently joined the team of developers at Explora Museum.

An “interactive touch screen guide conceived to enhance contents and exhibitions” – that’s the official line, but really it’s much more that. This is a project that combines state-of-the art technology with seamless user experience.

The ingredient I want to add is great content from international museums, so it’s challenge time.

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Errori e soluzioni

“C’era un errore!” il grido di vittoria è quello di una ragazzina che ha appena scoperto una trascrizione errata in un libro digitalizzato dal Mart di Rovereto per il progetto Libri di Guerra.
Adesso la correggiamo insieme. Ecco si fa così: hai corretto un errore e ora grazie al tuo impegno tutti possono leggere, scaricare e stampare questa pagina di un romanzo di Kipling.

kipling - la guerra nelle montagne
Insieme ad altri 7-8 adolescenti, la ragazzina era lì per partecipare a un lavoro di gruppo su Wikisource: grazie al contributo volontario della community del CoderDojo di Trento, un gruppetto di ragazzini e genitori si erano dati appuntamento alla Biblioteca Comunale di Trento per rintracciare errori e sterminarli.

Gli errori esistono perché non si possono fare le frittate senza rompere uova. I musei e le biblioteche d’Italia sono pieni di uova – intendo di dati, e nella stragrande maggioranza dei casi li nascondono.

Lo fanno perché se si pubblicano i dati, si scoprono errori, refusi, inadeguatezze, descrizioni disomogenee, conflitti, soldi buttati in acquisti di database inadeguati decisi da incompetenti. Inoltre, il lavoro necessario per pubblicare dati, in una fase intermedia può addirittura aumentare gli errori. Ad esempio, quando si digitalizza un libro per renderlo disponibile su Wikisource, capita che il software di riconoscimento automatico della scrittura faccia pasticci, e interpreti una i come l, o una n come h. Quindi ci vuole un umano – un gruppo di umani – che corregga gli errori.
La soluzione comoda e rassicurante è non fare niente di tutto questo: non digitalizzare, non pubblicare, non rendere disponibile. Nessuno protesterà, almeno per i prossimi 10 anni, c’è tutto il tempo di andare in pensione tranquilli.

L’alternativa è ammettere che il museo o la biblioteca non sono santuari della perfezione, che possono e devono restituire al pubblico le informazioni che conservano – perché già pagate dalle tasse dei cittadini – e che se, nel farlo, saltano fuori degli errori, non è un dramma. Ci sono persone, come ad esempio gli adolescenti, che trovano eccitante l’idea di aiutare un museo a correggere errori. Sempre che i musei lo vogliano, il coinvolgimento degli adolescenti.

Personalmente, adoro gli errori: sono lì a ricordarci che siamo umani, che la realtà esiste davvero ed è indipendente da noi. Ogni tanto mi capita di incontrare persone che odiano gli errori. Non ne ammettono nemmeno l’esistenza. Gli errori – pensano – non dovrebbero esserci. Quindi non ci sono. E se poi salta fuori che ci sono, si finge che non ci siano. Interi settori dell’amministrazione pubblica italiana, specialmente per quanto riguarda il patrimonio culturale, sono costruiti su queste fondamenta di ricotta.

Invece, riconoscere gli errori è liberatorio. Perché se c’è un posto per gli errori, allora c’è un posto anche per le soluzioni.

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TAR Transcendence

La copertina di TAR Transcendence, di scorcio, che è più stuzzicante.

TAR Transcendence

Il direttore editoriale di TAR, Luca Lisci, mi ha chiamato a dirigere questo numero, il dodicesimo, di una rivista che ho sempre ammirato da lettore. Il tema, la Trascendenza, ci ha permesso di spaziare liberamente attraverso le tre aree che TAR trova rilevanti e urgenti: l’arte, la scienza e l’etica. Il progetto di copertina, come sempre per TAR, si dilata ben oltre la prima pagina: una serie inedita di fotografie di David Lynch, intitolata “Women on couch”.

David Lynch.  Photo by Luca Lisci

David Lynch. Photo by Luca Lisci

Il percorso di analisi interiore del grande regista americano è stato lo spunto per una lunga serie di contributi e interviste. Non abbiamo cercato di catalogare esempi di tecniche di meditazione. Abbiamo piuttosto documentato il modo in cui l’esplorazione della propria coscienza sia “l’altra faccia” naturale e inevitabile della ricerca di artisti, musicisti e scienziati.

TAR Transcendence spazia tra l’India e il Sud Sudan, la Colombia e la Scozia, la California e il Giappone, il Sud Africa e New York, la Finlandia e il Mar Morto, Shanghai e Milano.

Con alcune voci dissonanti, che hanno aggiunto profondità alla nostra ricognizione.

TAR Transcendence - Intervista a Hamish Fulton

TAR Transcendence – Intervista a Hamish Fulton

TAR Transcendence - Intervista a Donovan

TAR Transcendence – Intervista a Donovan

TAR Transcendence - Contributo di Kendell Geers

TAR Transcendence – Contributo di Kendell Geers